Il lavoro in tempo di guerra

Il lavoro in tempo di guerra

Il lavoro, in tutte le sue forme, è uno dei grandi protagonisti degli anni della ricostruzione postbellica e del trentennio della “grande trasformazione”. Le premesse di tale protagonismo affondano le radici nella seconda guerra mondiale, nel suo carattere di guerra globale e, soprattutto, totale: una guerra che cancella la distinzione fra civile e militare, sottopone le società dei paesi partecipanti a uno sforzo estremo, coinvolge tutto il territorio dello stato e lo trasforma in un unico spazio di guerra. Fabbriche e centri industriali diventano luoghi strategici per la produzione di armamenti e materiali bellici, e i milioni di operai e operaie che vi lavorano diventano la parte avanzata del fronte interno, i nuovi soldati di una guerra di cui si erano avute anticipazioni, ma non conoscenza piena nel corso del conflitto precedente.

La guerra totale trasforma i processi produttivi, muta l’organizzazione del lavoro, innova le tecnologie utilizzate. Questi mutamenti sono più evidenti nelle industrie più direttamente connesse con la produzione bellica, ma coinvolgono progressivamente ogni altra attività produttiva o di servizio, non esclusa l’agricoltura. È dunque tutta la società che viene toccata e ne subisce gli effetti: mutano perciò le gerarchie tra i gruppi sociali, mutano le regole non scritte delle relazioni tra le persone, mutano i rapporti tra pubblico e privato; si modifica la vita delle persone e con essa i valori e le culture che la esprimono. Forte segnale di questi cambiamenti sono gli spazi nuovi che si aprono per le donne: la manodopera femminile è almeno un terzo della forza lavoro. Mutamenti profondi si producono anche nei rapporti tra direzioni delle imprese e lavoratori, tra i quali cresce la consapevolezza del ruolo che stanno giocando.

Ogni paese risponde comunque in modo diversificato alle esigenze che la guerra pone, a seconda della disponibilità di risorse, delle strutture organizzative, statuali e non, delle forme politiche e degli indirizzi ideologici. Pesa moltissimo il livello di sviluppo che un paese ha raggiunto. Se il livello è alto la guerra costituisce un’occasione di ulteriore espansione; se il ritardo è notevole la guerra può trasformarsi in un fattore devastante per tutta la popolazione.

Anche nella concezione del lavoro le differenze possono essere abissali. Fra gli Alleati il ruolo svolto dal mondo del lavoro porta a forme di riconoscimento attraverso la contrattazione fino alla definizione di forme di supporto da parte dello stato (vedi il Piano Beveridge in Gran Bretagna). Nei territori del Reich e nei paesi occupati il lavoro può essere una relativa condizione di privilegio per i tedeschi, diventare invece uno strumento di costrizione e sfruttamento senza limiti per le vittime di discriminazioni razziali e i prigionieri di guerra. Così il lavoro cambia natura e da mezzo di sussistenza, di vita, diventa strumento di coazione e di morte, per fame e fatica, per milioni di persone.

Attraversare questa complessità non è facile, ma è un percorso da provare e da compiere perché è importante per capire. Perché il dramma della seconda guerra mondiale, proprio per il suo portato estremo, ha un enorme potenziale di contemporaneità: ci può avvicinare alla verità di ciò che siamo stati, di ciò che siamo, di ciò che vogliamo essere.

Programma

Attraverso un approccio comparativo sono stati individuati tre momenti così articolati:

  1. Il lavoro nella guerra totale. A cura di Claudio Dellavalle – Martedì 29 ottobre – Sala conferenze del Polo del 900

Ha un carattere più generale che avvicina il fattore lavoro la cui rilevanza cresce nel tempo nel teatro di guerra europeo e negli Usa. (Per il teatro di guerra del Pacifico il discorso è in parte diverso, ma non viene affrontato in questa sede). Nella fase iniziale il ruolo del lavoro nei singoli paesi in guerra si definisce a seconda delle strategie perseguite dai governi e dalle forze armate, ma anche in rapporto alle risorse economiche disponibili, alla capacità di orientarle con strumenti di gestione adeguati, oltre che ovviamente in rapporto alle vicende del confronto sul campo. Ma con l’entrata in guerra dell’URSS (agosto 1941) e degli Usa (dicembre 1941) la guerra europea si fa guerra mondiale. L’allargamento dei fronti di guerra e le prime sconfitte sul campo spingono il Terzo Reich a un sostanziale mutamento della strategia di guerra. È un passaggio fondamentale perché ha ricadute su ogni aspetto dello scontro e apre una fase nuova. Si passa dalla strategia che si era rivelata vincente nei primi tre anni di guerra (il blitzkrieg o guerra lampo), a quella che si definirà come “guerra totale”. Quest’idea di guerra senza limiti costituisce un salto, uno scarto che richiede alla Germania, ma anche a tutti  gli altri paesi coinvolti, una ridefinizioni degli obiettivi, coinvolgendo fino in fondo la società e in primo luogo le strutture produttive. È un mutamento complesso ma decisivo, che  implica una pressione fortissima su tutte le componenti del lavoro:  una radicalizzazione dello sfruttamento, con derive drammatiche e disumane nei paesi dell’Asse; con le soluzioni “patriottiche” adottate dall’Unione Sovietica; con le tensioni, ma anche i riconoscimenti importanti nei paesi dell’alleanza democratica, in primo luogo Gran Bretagna e Usa, dove il ruolo giocato dal lavoro diventerà l’elemento sociale e politico imprescindibile del dopoguerra.

  1. Il lavoro delle donne: il caso dell’Italia. A cura di Barbara Berruti, Claudio Dellavalle – Martedì 12 novembre – Sala Memoria delle Alpi

Il secondo momento è dedicato al coinvolgimento di masse importanti di forza lavoro femminile nelle attività produttive dedicate alla guerra e nelle strutture di supporto. È un fenomeno di portata sociale e culturale innovativa che ha la massima espressione nel contesto della Gran Bretagna, ma che ha traduzioni importanti anche in un paese come l’Italia. In questi percorsi trovano fondamento i processi diretti e indiretti di emancipazione, negati invece sul piano ideologico nel contesto della Germania nazista.

  1. Protagonismo operaio e nuove forme della politica nell’Italia occupata. A cura di Claudio Dellavalle, Cristian Pecchenino – Martedì 26 novembre – Sala Memoria delle Alpi

Il terzo momento affronta più da vicino la realtà del mondo del lavoro nel nostro paese. Si tratta di un’esperienza che ha indubbie specificità sia perché l’Italia entra in guerra come componente dell’Asse accanto a Hitler, tenta di uscire dalla guerra con l’armistizio dell’8 settembre 1943, subisce l’occupazione tedesca del centro-nord. Nell’autunno 1943 i tedeschi cercano di integrare il sistema produttivo italiano nelle scelte di guerra totale definite nel 1942-43 dal Terzo Reich. Dovranno però misurarsi con le forme di autodifesa diffuse attivate dai lavoratori e dalle lavoratrici. I fascisti della RSI cercheranno di controllare l’iniziativa operaia arrivando a proporre una forma di cogestione delle imprese. Senza successo, perché in cambio pretendono la pace sociale e il sostegno alla scelta bellica. Le forme di resistenza passiva in difesa dei livelli di vita e di lavoro del mondo operaio si incontrano per strade diverse con il movimento di resistenza armato che trova nella fabbrica un naturale terreno di incontro. Vengono così a maturazione le forme organizzative clandestine che a partire dallo sciopero generale del marzo 1944 daranno crescente rilevanza politica al protagonismo sociale del lavoro, proiettato sul dopoguerra dal prestigio morale e politico acquisito.

dal sito web dell’Istituto Piemontese per la Storia della Resistenza e della Società Contemporanea “Giulio Agosti”

www.istoreto.it